CACUME E MORBANO TRA LEGGENDA E REALTA’ - di Micaela Merlino
Esiste una tradizione orale, tramandata di generazione in generazione da alcuni secoli a questa parte, in alcune contrade della Marsica occidentale, secondo cui nella zona montana tra Cappadocia, Verrecchie e Pereto esistevano due villaggi d’altura, Cacume e Morbano. Gli abitanti di questi paesi erano divisi da aspre e insanabili contese, tanto che meditarono, spinti da odio feroce, di annientarsi a vicenda. Il ricordo di questo luttuoso evento era conservato anche “…in una carta rinvenuta fra le memorie riunite dal fu D. Marino Tomassetti di Pescina (…)”, così come annotò A. Di Pietro nella sua opera (1873) : si trattava di un manoscritto settecentesco in possesso del barone Tomassetti. Questa tradizione fu riportata espressamente dal Di Pietro, che la citò in relazione alla storia dello sviluppo del paese di Verrecchie: “…esistevano nella montagna di Tagliacozzo due paesetti chiamati uno Varrumpano, e l’altro Cacume; denominazioni che si sono conservate fino ai tempi nostri. Erano gli abitatori scambievolmente nemici fino al segno di meditare gli uni la distruzione degli altri. Eseguirono il concepito disegno: nella stessa notte quei di Varmanpano partirono per incendiare Cacume, e quei di Cacume per incendiare Varrumpano, come fecero risolutamente. Quando poi senza saperlo vollero rientrare nelle proprie abitazioni, ogn’uno le trovò bruciate, e così strinsero amicizia, e fabbricarono il paese di Verrecchio situato a poca lontananza. Si faccia di questa tradizione quel conto che merita” . La medesima tradizione presente nel manoscritto fu citata anche dallo storico tagliacozzano Giuseppe Gattinara nella sua opera (1894), ma con maggior ricchezza di particolari. Egli la ricorda a proposito dello sviluppo di Tagliacozzo, paese che avrebbe accolto gli abitanti scampati all’incendio dei due villaggi: “…l’aggregamento di questo villaggio [Morbano] e di Cacumen al nostro paese, non avvenne per le invasioni barbariche (…), ma per mera fatalità che la costante tradizione, abbenché non ne determini l’epoca, ed un manoscritto inedito ci tramandano. Questi due villaggi non distavano fra loro più di tre chilometri circa. I rispettivi abitanti si odiavano a morte per le continue quistioni di confine, di pascolo e di bosco, le quali spesso erano causa di ferimenti e omicidi (…)” . Gli odi e la rivalità che dividevano gli abitanti erano dunque di antica data, e dobbiamo quindi ammettere che frequenti erano le contese e le scaramucce, finché “un giorno in cui più accanito divampò lo sdegno, ciascuna parte risovi farla finita. Un monte boscoso detto La Maddalena, da Cacumen, declinando sempre, va a finire nei pressi di Verumpano, e le due pendenze guardano l’est e l’ovest. Ora, nel mentre quei di Cacumen compatti ed armati muovevano alla volta di Verumpano per un declive, anche questi per il versante opposto, mossero contro Cacumen. Battendo sentiero opposto non s’incontrarono, e addebitanto a fuga degli abitanti il paese nemico che trovarono disabitato, fecero le loro vendette con appiccare il fuoco al caseggiato, e tronfi dell’opera, ciascuna parte fece ritorno in patria per la stessa via. Ma quale dovette essere la sorpresa scambievole allorché videro la patria andare in fiamme? Così in un giorno, e nell’ora istessa, perirono questi due villaggi, i di cui abitanti si rifuggiarono parte in Tagliacozzo, e parte in Verrecchie, ove trasportarono la campana grande che trovasi in quel campanile. L’epoca di tale avvenimento non è precisata, ma può rimontare, a giudizio dei vecchi, al XV secolo o al XVI secolo. In essa campana si scorge la data della fusione 1525” . E’ interessante constatare che la dinamica degli assalti assomiglia ad una vera e propria spedizione bellica, con gli abitanti dei due villaggi che diventano, per l’occasione, quasi una schiera di soldati “compatti ed armati”; ed anche l’azione guerresca si sviluppa alla stregua di un classico assedio, al termine del quale viene appiccato il fuoco.
Purtroppo né la tradizione orale, né il racconto presente nel manoscritto, sono in grado di precisare l’epoca in cui sarebbe accaduto tale evento. Il Gattinara propose una timida ipotesi, avallata dal “giudizio dei vecchi”, e scrisse quindi che l’evento sarebbe da assegnare al XV o al XVI secolo. Ma, se fosse vera la tradizione del trasporto della campana di Morbano a Verrecchie, e se è da accettare l’esistenza della data 1525, relativa alla fusione della campana stessa, allora tale data costituirebbe un terminus post quem per la distruzione di Cacume e Morbano.
FUOCO O PESTILENZA COME CAUSA DI DISTRUZIONE DI CACUME E MORBANO?
Nella tradizione orale, tramandata soprattutto a Cappadocia e Pereto, esiste una variante in merito alla causa della distruzione e del totale abbandono dei due villaggi. Questa diversa versione dei fatti è stata raccolta da Don Vincenzo Massotti in una pubblicazione riguardante Cappadocia nel tentativo di dare una spiegazione all’etimologia del toponimo Morbano, il Massotti, seguendo la voce popolare, propone anche una possibile derivazione da “…morbo, luogo di appestati…” . La presunta derivazione del nome Morbano dal vocabolo latino morbus (malattia contagiosa, epidemia), fa parte di una variante della tradizione orale diffusa a Cappadocia (e anche a Pereto), poiché alcuni abitanti di tali paesi affermano che “…probabilmente l’etimologia del nome del paese di Morbano, è da ricondursi al fatto che in quel posto venivano relegate e circoscritte le persone affette da malattie contagiose” . E’ interessante notare come, invece, a Pereto alcuni sostengono che il paese di Morbano sia stato abbandonato a causa di una grave pestilenza, avvenuta forse nel corso del XVI o XVII secolo, che ne avrebbe decimato gran parte della popolazione. I sopravvissuti al grave morbo si sarebbero trasferiti in massa presso Pereto, contribuendo ad aumentarne il popolamento . E’ difficile ammettere la correttezza e la veridicità di queste proposte interpretative, in merito al declino di Morbano; tuttavia è significativo il fatto che nella tradizione orale sia confluito il ricordo di quelle pestilenze, e di altre malattie contagiose, che nel corso del XVI e XVII secolo si abbatterono anche sulle contrade marsicane. Il Gattinara ricordò la desolazione che ebbero a soffrire alcuni paesi del circondario in occasione di alcune gravi epidemie, come quella che scoppiò all’inizio del XVI secolo: “Un morbo epidemico e contagioso (…) infierì per ogni dove, senza risparmiare queste contrade. Ribelle ad ogni rimedio, mieteva a centinaia le vite…” . Nel 1656, invece, la “peste orientale” causò la rovina di alcuni abitati marsicani: “…per questa epidemia il villaggio Gallo restò del tutto deserto, ed in quello di San Donato sopravvissero solo otto persone (…)” . Nel 1784 si verificò il “terzo assalto del morbo epidemico che molte vittime trasse alla tomba (…)” . Nel 1837 la Marsica fu solo sfiorata da una grave epidemia di colera, mentre nel 1854 il “colera morbus”, “…fece il suo trionfale ingresso, e ci deliziò per dodici giorni (…)” .
Il ripetersi di queste epidemie, storicamente accertate, rende possibile ammettere che nella coscienza popolare il verificarsi di tali gravissimi contagi abbia fatto additare proprio nei “morbi contagiosi” una delle possibili cause di abbandono di abitati.
UNA LEGGENDA COMUNE A PIU’ PAESI
E’ comunque significativo che nelle versioni finora analizzate della “leggenda” vi sia un elemento di diversità che è da riconoscere nel paese, o nei paesi, in cui avrebbero trovato scampo i fuggitivi. Ogni borgo pare infatti rivendicare il primato di essere stato il luogo ove i fuggiaschi avrebbero cercato scampo: a Pereto si narra che gli abitanti di Cacume e Morbano avrebbero addirittura dato vita a due rioni distinti del paese o si sarebbero limitati a popolarli, in quanto “quelli di Cacume” si sarebbero insediati presso la “’Ota” mentre “quelli di Morbano” presso “Paghetto” . A Cappadocia la tradizione locale afferma che i fuggitivi andarono a popolare Verrecchie, mentre a Tagliacozzo la “leggenda” raccolta dal Gattinara affermava che i fuggitivi “…si rifuggiarono parte in Tagliacozzo, e parte in Verrecchie…”, e che addirittura a Verrecchie trasportarono “…la campana grande che trovasi in quel campanile…” . Secondo il Di Pietro, invece, la formazione dell’abitato di Tagliacozzo sarebbe da addebitare al trasferimento di popolazioni da numerosi paesi limitrofi. Si può notare come solo nel caso della versione tagliacozzana della “leggenda” si parli almeno di due paesi, Tagliacozzo e Verrecchie, e non di uno in cui avrebbero trovato scampo i fuggitivi di Cacume e Morbano; invece nel caso di Cappadocia si afferma come gli abitanti di Morbano si trasferirono a Verrecchie, mentre Pereto rivendica in qualche modo il “primato” di essere stato il paese ove affluì la maggior parte degli abitanti delle due località distrutte, ma ciò mal si accorda con la versione tagliacozzana della vicenda, nella quale Pereto non viene nominato quale probabile paese di destinazione dei fuggiaschi. Allo stesso modo, nei nuclei narrativi finora considerati non è mai citato neppure il paese di Camerata Nuova, quale presunta meta del peregrinare degli abitanti delle due località. E’ chiaro, dunque, nel raccontare la “leggenda” della distruzione di Cacume e Morbano, come alcuni paesi si siano appropriati dell’esclusiva prerogativa di essere stati la meta prescelta dai fuggiaschi ed anzi, nel caso di Pereto, la distruzione dei due abitati di montagna sarebbe stata sentita e interpretata come “l’atto di nascita” del borgo in cui la vita fiorì perché il fato la spense poco più a monte.
LA CAMPANA CONTESA TRA VERRECCHIE E CAMERATA NUOVA
Anche presso Camerata Nuova la tradizione locale narra la vicenda di Cacume e Morbano. Qui vi è un ricordo tangibile della fuga degli abitanti di Morbano: si tratta della statua miracolosa della Madonna della Pietà . Ricordiamo brevemente la vicenda. Nella notte tra l’8 e il 9 gennaio 1859 l’antico paese di Camerata Vecchia, posto sulla sommità di uno sperone roccioso a metri 1218 di altitudine e dominante la vallata della Piana del Cavaliere, nel volgere di poche ore fu completamente distrutto dalle fiamme di un indomabile incendio. Gli abitanti, affannosamente fuggiti dalle proprie abitazioni in preda al panico, cercarono di mettersi in salvo raggiungendo la vallata sottostante. Tutte le case, tutti gli edifici furono abbandonati alla furia del fuoco; rovinò irrimediabilmente anche la chiesa di San Pietro, ma pur in mezzo a tanta devastazione e a fuligginose colonne di fumo che occultarono il paese sotto una nube nera terrificante, accaddero due miracoli: sia la statua della Madonna della Pietà che quella di Sant’Antonio Abate (quest’ultima direttamente attaccata dalle fiamme) non bruciarono ma restarono illese. Quando all’indomani del disastro furono avviati i lavori per la costruzione di un nuovo paese, denominata poi Camerata Nuova e sorto a valle presso la località Collecchio, i sopravvissuti trasportarono le due statue miracolose nel nuovo borgo. Tempo dopo, quando furono ultimati i lavori di costruzione della chiesa di S. Maria Assunta, edificata grazie ad una somma di denaro generosamente concessa da papa Pio IX, con una solenne processione i due simulacri furono portati all’interno della nuova chiesa . In merito alla statua della Madonna della Pietà è singolare quanto tramandano i Cameratani e cioè che il simulacro della Vergine è quello stesso scampato all’incendio di Morbano poiché, quando il villaggio montano fu devastato dalle fiamme, i fuggitivi lo misero in salvo presso Camerata Vecchia. In questa versione della leggenda il motivo narrativo della totale distruzione a causa di un incendio torna per ben due volte, come una sorta di leit-motiv costante, che si ripete nel corso dei secoli: la statua della Madonna della Pietà fu messa in salvo presso Camerata Vecchia dopo la distruzione per fuoco di Morbano e similmente la medesima statua, questa volta miracolosamente rimasta illesa, fu messa in salvo presso Camerata Nuova dopo la distruzione, sempre a causa di un incendio, di Camerata Vecchia. Tanto la credenza del miracolo è radicata nelle coscienze dei Cameratani, che il ricordo dell’accaduto e per sincera devozione alla Madonna, costoro ancora oggi celebrano una festa in suo onore “…a cominciare dal vespro del sabato successivo alla Madonna dej otto. La sera dopo la santa Messa si svolge la processione, tutto è rischiarato da fiaccole, torce e lumini colorati. La macchina della Madonna è portata da sedici Madonnari che si alternano sul percorso. La Domenica dopo la messa cantata delle 11 viene portata di nuovo in processione…” . Ma c’è di più. Come abbiamo visto, nella tradizione raccolta e trascritta dal Gattinara gli scampati del disastro di Cacume e Morbano portarono a Verrecchie “…la campana grande che trovasi in quel campanile…” ; non è però specificato da dove provenga tale campana, se da Cacume o Morbano, anche se gli abitanti di Verrecchie credono che essa sia stata trasportata da Morbano. Ebbene, anche a Camerata Nuova “…c’è una campana che si dice provenga da Morbano...” . Tenendo conto di come viene raccontata ancora oggi la storia presso Camerata Nuova, sembra di capire che furono proprio gli abitanti di Morbano a trovare rifugio presso Camerata Vecchia e a condurre con sé sia la statua della Madonna della Pietà sia la campana della chiesa del paese. Possiamo vedere, dunque, come due località, Verrecchie e Camerata Nuova, rivendichino il trasporto presso il proprio edificio di culto della campana della chiesa di Morbano; forse la campana era quella un tempo esistente presso la “Ecclesia Sanctae Maddalenae” che sorgeva a Morbano? Questo edificio di culto è citato nelle decime vaticane dell’anno 1324 e faceva parte delle chiese di Verrecchie , ma assai difficile risulta rinvenire altro materiale documentario ad essa pertinente.
Concludendo sembra proprio che la presunta distruzione di Cacume e Morbano costituisca un filone di ricerca irto di difficoltà, con poche certezze e qualche timida ipotesi; eppure solo la perseveranza nell’indagare e nel ricercare potranno forse restituire, in proseguio, la giusta collocazione storica ad entrambi i siti e strappare le loro rovine al gelido silenzio che continua a pervaderle.
Tratto dal libro Storia di Cappadocia, Petrella, Verrecchie, di Alessandro Fiorillo. Capitolo 8 curato da Micaela Merlino